In questi giorni di emergenza legati al Coronavirus abbiamo avuto modo di “ritrovare noi stessi”, anzi, per citare Seneca “vindica te tibi et tempus…”. Ed è stato qualcosa di molto positivo perché ci ha permesso innanzitutto di conoscerci. Sembrerà strano, ma noi non conosciamo noi stessi. Noi conosciamo, a causa della vita frenetica che non ci permette di riflettere, solamente ciò di cui abbiamo idea su noi stessi. Un’idea vaga, molto sfumata, spesso contorta e quasi sicuramente errata. In un mondo in cui tutti vogliono essere primi, rimembrando Churchill, il secondo è sempre il primo a perdere. Abbiamo questa frenesia di primeggiare, di essere i primi, i presidenti, i capi, i governatori, i detentori di un potere, anche quello più stupido di poter lanciare il pallino per giocare a bocce. E mentre tutto ciò si dipanava nella mia mente, in una di quelle riunioni su piattaforma virtuale avviene il celeberrimo “lupus in fabula”: un signore, alquanto alterato, si arrabbia per essere stato citato alla fine nonostante la gerarchia gli imponesse un posizionamento “più elevato”. Non vogliamo scomodare il Vangelo sugli ultimi che saranno i primi, o ancor sul fatto che è meglio sedersi in fondo alla tavola per farsi chiamare a prendere un posto migliore piuttosto che il viceversa, ma la scena è stato di un patetico unico. La bramosia di essere primi anche nelle parole. E seppur è vero che la forma è sostanza, la “sformata” reazione di chi pretende il posto d’onore mostra il nulla nella sostanza.
Alain Calò
'La stupidità dei numeri primi'
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