Come negli articoli precedenti, parliamo di Nicosia partendo dal mio componimento poetico dal titolo “Nicosia, nobile dama”, diviso in 9 parti tematiche. Esaminiamo ora la sesta parte, che si concentra sul punto di vista linguistico, ossia sull’origine del peculiare dialetto gallo-italico di Nicosia. Di seguito la porzione di testo interessata:
Mentre la zuppa cuoce,
si odono gli anziani.
Gallo-italica è la voce
dei discorsi più arcani.
Molte parole in disuso
del nicosiano antico.
Può apparire astruso
persino ciò che dico
a gente non locale
se uso il nicosiano.
La lingua non è uguale
andando poco lontano.
Le differenze sono molte,
ma, nonostante le distanze,
può capitare a volte
di trovare somiglianze.
Il dialetto gallo-italico deve il suo nome alla macro-regione a sud delle Alpi, denominata dai Romani “Gallia cisalpina”, e alle caratteristiche (soprattutto fonetiche) tipiche dell’italiano settentrionale. Infatti, i dialetti gallo-italici vengono anche detti “dialetti alto-italiani” (in riferimento ad un gruppo di dialetti settentrionali quali: piemontese, lombardo, ligure, emiliano e romagnolo), anche dislocati fuori dall’area d’origine, nello specifico in Sicilia e nel Meridione continentale, tra la Basilicata e l’estremità meridionale della Campania, oltre a due territori della provincia di Lucca.
Sebbene in Sicilia si possano individuare ben 24 località i cui dialetti locali presentano alcuni tratti settentrionali, si riconoscono come dialetti schiettamente gallo-italici solamente i dialetti presenti a: Nicosia, Sperlinga, Valguarnera Caropepe, Piazza Armerina ed Aidone, per quanto concerne la provincia di Enna; Randazzo nella provincia catanese; Ferla, Buccheri e Cassaro in provincia di Siracusa; mentre in quella di Messina: Montalbano Elicona, Novara di Sicilia, Aquedolci, Fondachelli-Fantina, San Fratello, Tripi e San Piero Patti.
Tali territori siciliani venivano definiti “colonie lombarde di Sicilia”, in cui l’aggettivo “lombardo” è da considerarsi come pura contrazione di “longobardo”, termine col quale ci si riferiva a tutta l’Italia settentrionale conquistata da tale popolazione (cioè all’area corrispondente all’antico Marchesato del Monferrato, territorio ben più esteso dell’odierna regione italiana Lombardia!). Nella mappa vediamo il regno longobardo alla sua massima espansione nel 750.
Il dialetto gallo-italico appare, quindi, come un impasto di gallico e “lombardo”, retaggio di antiche e nordiche dominazioni. Infatti, anche la Sicilia dal VI sec. d.C. venne conquistata dai Longobardi, a cui si aggiunsero soldati mercenari provenienti dalla Provenza, regione a sud-est della Francia, chiamati a difendere le fortezze normanne. Nel XI secolo, sempre su richiesta normanna, in Sicilia furono trasferiti nuclei d’origine alto-italiana alla scopo di ripopolare centri ritenuti strategici per il controllo di aree ancora caratterizzate, all’epoca, da una significativa presenza araba.
All’arrivo dei normanni, infatti, la lingua parlata in Sicilia era un misto tra arabo (diventato “lingua di popolo”), greco (parlato nella parte nord-orientale intorno a Messina), e neolatino (l’odierno siciliano). I normanni contribuirono lentamente ad accrescere il processo di romanizzazione (ovvero di latinizzazione della lingua) che portò poi a soppiantare la forte influenza della lingua araba, ma sempre secondo un’astuta politica di incoraggiamento della pacifica convivenza tra le popolazioni musulmane, greche e latine, come testimoniato dalle iscrizioni plurilingui, dalla mescolanza di stili architettonici e dalle monete coniate sia in arabo che in greco e latino.
A Nicosia, dopo la conquista normanna ad opera del conte Ruggero d’Altavilla, vennero insediati coloni liguri-piemontesi. L’influenza normanna nel dialetto si avverte particolarmente a livello fonetico nella pronuncia di “sg” (letta con il suono della “j” francese, come nelle parole “diesgio carosgie”, ossia “10 ragazzi”), nella pronuncia nasale della “n” collocata a fine parola (come in “pan”, “bön”, “vin”, ecc), nella chiusura della “ë” e la “ö” (come in “dëi”, ossia “essi” e “rraddö”, ossia “sporcizia”), e nelle desinenze di molti verbi terminanti in ‘é’ aperta (come per molti verbi francesi quali “manger”).
La pronuncia chiusa delle vocali non avviene a prescindere, ma a volte è distintiva di significato, come nel caso di parole quasi identiche, che si distinguono per un solo fonema, in cui la differenza semantica è, però, sostanziale. Ad esempio, nel caso della “o” aperta o chiusa, sono coppie minime: “rrozzö” (“rozzo”) e “rrözzö” (“rubinetto”), “fodda” (“pazza”) e “födda” (“folla”), “so” (“suo”) e “sö” (essi sono”), ecc. Nel caso della “e” aperta o chiusa: “peo” (“pelle”) e “pëo” (“pelo”), “beo” (“bello”) e “bëo” (“bere”), o ancora “neo” (“anello” o “neo”) e “nëo” (“neve”), ecc. A livello lessicale, invece, l’influenza normanna è evidente nei vocaboli di indubbia derivazione francese (ad esempio: “savön”, ossia “sapone”, “tombé”, ossia “cadere”, e “fermé”, come sinonimo del più usato “nciodo”, ossia “chiudere”).
Nel dialetto nicosiano odierno vi sono numerosi termini in disuso (come le esclamazioni “grùcela!” o “squàsgio!”) e termini caduti nell’oblìo, come quelli che designano antichi mestieri e oggetti, oggi scomparsi. Vi è anche un lessico legato alle tradizioni, di cui sono esempio i termini “ndrìo” e “mbrìtolo” in riferimento ai sassi utilizzati nel gioco detto “ciappëttë” (in italiano “sussi”), su cui approfondiremo nell’articolo dedicato alle feste nicosiane.
Inoltre, molti sono i casi di equivoci linguistici sia a livello nazionale che regionale. Come già visto nel precedente articolo, dire di mangiare la “picciotta” non è una confessione di cannibalismo! Infatti, tale termine designa la polenta nicosiana, e non una ragazza. La parola “ragazza” è traducibile in nicosiano arcaico, invece, con “fantina”, ma senza nessun riferimento all’equitazione!
Molte sono le frasi dall’effetto comico, come ad esempio l’esclamazione “ghié nchian chin chin!”, dalle sembianze foneticamente nipponiche, che significa semplicemente “il mercato è molto affollato (pieno pieno)!”. La stessa ilarità può scaturire da frasi semidialettali come ad esempio la domanda “come si dice ‘i-taliano’ in italiano?”, intendendo con “i taliano” il corrispettivo nicosiano dell’italiano “li hanno guardati”. L’elenco è lunghissimo e vi rimando ad un mio volume interamente delicato alle peculiarità del dialetto nicosiano, in cui citerò anche alcune opere letterarie prodotte in nicosiano, come le novelle di Mariano La Via Bonelli e le poesie degli Illustri poeti tra cui il farmacista Carmelo La Giglia ed il magistrato Nicola Cirino (a cui fu successivamente dedicata una via al centro del paese), oltre a mie produzioni scritte interamente in dialetto, al fine di mantenere vive le nostre peculiarità e di diffonderle ai posteri ed ai popoli non autoctoni.
Auspicando che anche questo articolo vi sia piaciuto, vi rinnoviamo l’appuntamento alla prossima settimana con il prossimo, dedicato all’antica tradizione della Casazza! Grazie per l’attenzione, restiamo sempre a disposizione per eventuali dubbi e proproste di collaborazione.
Marzia Marassà
'Alla scoperta di Nicosia di Marzia Marassà'
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